FRANCESCO
JERACE
Nato a Polistena nel 1853, Francesco Jerace era fratello di Gaetano
(Polistena 1860 – Napoli 1940), pittore, e Vincenzo (Polistena 1862 – Roma
1947), pittore e scultore. Suo padre Fortunato era un disegnatore e costruttore
di opere murarie, di ponti e di facciate di chiese (importante la chiesa della
Santissima Trinità di Polistena dove fece innalzare tutte le colonne granitiche
della facciata). Suo cognato era Fortunato Longo in quanto aveva sposato una
sorella dello scultore.
Lasciò la provincia di Reggio Calabria nel 1869, dov’era un seminarista,
per trasferirsi a Napoli dallo zio Vincenzo Morani (figlio di Fortunato), il
padre e lo zio non approvarono. Successivamente entrò all’Accademia delle Belle
Arti di Napoli, dove fu allievo di Stanislao Lista, e iniziò la sua carriera di
pittore e scultore.
Il suo primo lavoro fu un bassorilievo di gesso con una testa barbuta
conservata tuttora nel Municipio di Polistena. Il primo importante lavoro è del
1873, un monumento funerario per la famiglia di Mary Somerville; vengono
poi le decorazioni della villa Meuricoffre, la partecipazione alla mostra
nazionale di Torino (1880). E poi viene il successo ampio e corale, dove Jerace
acquista un tono europeo. Opere sue sono a Londra, Varsavia, Berlino, Dublino,
Vienna e, naturalmente, nelle città italiane ha lasciato il segno con le sue
opere d’arte: oltre cinquanta monumenti, opere di argenteria e di decorazione,
una ventina di busti. Nel 1880 a Torino scolpì Victa. Con Victa, Marion e i
Legionari di Germanico, Francesco Jerace partecipò con successo al triplice
concorso dell’Esposizione Nazionale di Torino. Nella Villa la Fiorita,
Francesco con le sue opere, impreziosì i giardini e i grandi saloni.
Scolpì teste possenti come Giosuè Carducci, Francesco Crispi, Finali.
Modellò busti di Fiorentino, Teresa Ravaschieri, Andrea Cefaly, Di Rudinì,
Rattazzi, e più recentemente Gioacchino Toma e Rubens Santoro.
Tra i monumenti da lui scolpiti si ricordano: quello al compositore e
pianista Martucci a Capua, quello al politico ed avvocato Pietro Rosano ad
Aversa (1907), quello al musicista Domenico Cimarosa e quello ai Caduti della
prima guerra mondiale, sempre ad Aversa, quello al Cefaly nella villa
catanzarese; quello a Umberto I, a Pizzo Calabro, a Gabriele Pepe a Campobasso,
(1913), e infine all’austero ricordo dell’Arcoleo (1918) e i monumenti di
guerra e d’arte sacra recentissimi a Reggio Calabria, a Sorrento, a Stefanaconi
e a Polistena.
Jerace scolpì numerosi monumenti e sculture a Reggio Calabria, tra cui il
Monumento ai caduti di tutte le guerre, il pulpito marmoreo con le palme e le
sculture di San Paolo e Santo Stefano di Nicea presso il Duomo, il Monumento a
Giuseppe De Nava dove è eternato il padre con lo squadro in mano
nell’altorilievo frontale.
Scolpì due episodi storico-religiosi nel Duomo di Napoli; due bassorilievi
in cui in uno è raffigurato il Martirio di San Gennaro, nell’altro è
raffigurato l’episodio del Miracolo delle Reliquie durante una eruzione del
Vesuvio. Sempre a Napoli, scolpì presso il Palazzo Reale di Napoli la statua di
Vittorio Emanuele II, e nel 1895, per il Conservatorio San Pietro a Majella, la
statua di Beethoven. Suo è il monumento funebre a Mary Somerville, all’interno
del cimitero acattolico di Santa Maria della Fede. Sue sono alcune statue
sparse per la città, come quella del sindaco di Napoli Nicola Amore.
Jerace si espresse maggiormente nell’arte sacra e nell’arte allegorica,
iniziò come scultore con monumenti di arte funebre, ma l’opera più nota
dell’artista è certamente la scultura presente al Vittoriano di Roma: L’azione.
Fu un artista di dimensione internazionale, sue opere sono presenti
all’estero in parecchie città. In Europa a Madrid, Londra, Monaco di Baviera,
Atene, Odessa, Berlino, Varsavia, L’Aia e l’Irlanda e fuori Europa a Bombay.
A Francesco Jerace è dedicato il museo civico di Polistena, contenente tra
le altre, sue opere e degli artisti della famiglia.
GIUSEPPE
RENDA
Giuseppe, Nacque a Polistena nel 1859, figlio di Francesco e Clara Lagamba.
Iniziò ad avvicinarsi alla scultura lavorando nella bottega dei fratelli
Morani, nel 1874 si trasferisce a Napoli, successivamente cominciò a studiare
nell’accademia di belle arti di Napoli. Dove fu allievo di Tommaso Solari,
Stanislao Lista e Gioacchino Toma. Nell’accademia vinse il concorso
d’ammissione al Reale Istituto di Belle Arti di Napoli, cominciò a lavorare
nella fabbrica di ceramiche di Cacciapuoti e Scotti a Capodimonte, come
modellatore di pastori e figure.
Nel 1898 divenne direttore tecnico della fonderia Laganà di Napoli. Le sue
esposizioni nazionali, a Palermo nel 1891 con Angelo caduto e Cosi mi ami,
Milano 1894 con La Fortuna, Firenze 1896 con Prima ebbrezza, Torino 1898 con
Voluttà a Verona nel 1900 con Ondina. Prese parte anche a numerose mostre
internazionali di Londra, San Pietroburgo, Barcellona, Vienna, riceve due
medaglia d’oro, con Prima ebbrezza (nel 1896 a Monaco di Baviera) e con Dopo
(nel 1904 a Saint-Louis). Viene premiato con Monelli napoletani nel 1909 a
Parigi.
Giuseppe Renda partecipò alle esposizioni della Società Promotrice di Belle
Arti “Salvator Rosa”, e alle prime mostre nazionali. Fu autore di importanti
monumenti, tra qui quello del generale Enrico Cosenz, Giacomo Leopardi e il
busto di Tommaso Campanella a Chiaia. Monumenti ai caduti di Pazzano,
Castellammare di Stabia e Tropea, le sue sculture furono richieste in tutto il
mondo, il suo successo fu nelle sue figure, di nuovi elementi tratti dallo
stile liberty, come Donna sorridente 1915, Prima ebbrezza 1895. Creò pure
presepi con l’argilla, numerose sono anche le opere di bronzo, tra cui: Bronzo
Estasi, Bronzetto Violeta 1908, bronzetti a Reggio Calabria, il Bronzo Dopo e
La Fortuna alta sette metri, che si trova nella Banca Antoniana Veneta di
Polistena.
Nel 1990 la scuola professionale per i Servizi Alberghieri e Ristorazione e
la scuola professionale per i Servizi Commercio e Turistici, intitolano con il
suo nome l’istituti.
Nel 1993, sono state esposte delle sue opere, nella rassegna scultura
italiana, opere del primo novecento come: Fortezza del Priamàr e Savona, a cura
del critico d’arte Vittorio Sgarbi.
VINCENZO
MORANI
MORANI (Morano), Vincenzo. – Nacque il 12 luglio 1809 a Polistena,
secondogenito di Fortunato, prolifico decoratore e scultore, e di Pasqualina
Mamone.
Fortunato (Soriano Calabro 1768 – Polistena 1836), appartenente a una
famiglia di decoratori attiva nel Catanzarese già nel corso del XVIII secolo,
trasferì la sua bottega a Polistena ove fu partecipe del clima di rinnovamento
culturale e artistico che caratterizzò il contesto vibonese dopo il terremoto
del 1783 e che animò la cerchia di artisti riunitasi intorno all’archeologo ed
erudito Vito Capialbi. Tra le sue opere si ricorda il ciclo di stucchi nella
chiesa di S. Leoluca a Monteleone realizzati attorno al 1818 su disegni di
Emanuele Paparo, in cui sono evidenti i riferimenti alla scultura di Antonio
Canova e Bertel Thorvaldsen e, in particolare, ai bassorilievi eseguiti
dall’artista danese fra il 1805 e il 1807 per il fonte battesimale dell’abbazia
di Brahetrolleborg.
Accanto al padre, attivo prevalentemente come stuccatore a Polistena, a
Monteleone e in altri centri del Reggino, avvenne la prima formazione di
Vincenzo, che condivise con i fratelli Francesco, Domenico e Giovanni l’avviata
attività della bottega di famiglia. Ottenuta così una buona preparazione
artistica nel contesto locale, si trasferì a Napoli all’inizio degli anni
Venti, grazie anche a una pensione del Comune; abitò all’albergo dei poveri,
poi a casa del medico compaesano Francesco Rocca che lo presentò al generale
Vito Nunziante e grazie alla cui intercessione ottenne una pensione di 9 ducati
al mese (Napier, 1855, p. 44). Nel 1827 poté quindi iscriversi al Real Istituto
di belle arti di Napoli, dove ebbe come maestri Costanzo Angelini, Joseph
Franque e Camillo Guerra.
La capitale del Regno rappresentò una tappa centrale nella formazione di
Morani come per molti artisti provenienti dalla Calabria tra Sette e Ottocento,
offrendo al contempo il riferimento di una importante istituzione accademica e
l’occasione di un pubblico e di un mercato internazionali. I molteplici
linguaggi figurativi della produzione artistica contemporanea, promossi, a vari
livelli, nella città di Francesco I di Borbone, influenzarono l’opera di Morani
che si mostrò, sin dai suoi esordi, interessato a praticare, oltre che la
pittura di storia, anche generi minori, molto apprezzati dalla committenza
locale, come il paesaggio, la ritrattistica e la pittura di soggetto popolare.
Nel 1830 partecipò all’esposizione della Biennale borbonica con una
tempera, la Veduta di un tempio. Allo stesso anno risale anche la prima,
importante, committenza: tra il 1830 e il 1832 i benedettini lo incaricarono di
dipingere un affresco nel refettorio dell’abbazia della SS. Trinità di Cava de’
Tirreni raffigurante Urbano II mentre si reca alla Cava accompagnato da Ruggero
principe di Salerno. Durante l’esecuzione dell’affresco, nel 1832, incontrò
Walter Scott, giunto in visita all’abbazia per ammirare le miniature dei codici
longobardi ivi conservate: Morani eseguì, in quell’occasione, oltre alle copie
delle miniature anche un ritratto dal vero dello scrittore inglese intento a
leggere i manoscritti. Il disegno, apprezzato dai contemporanei per la vivida
naturalezza, fu subito riprodotto in litografia.
Acquisita una certa notorietà in ambito accademico grazie anche alla
medaglia d’argento ottenuta nell’esposizione della Biennale borbonica del 1833
con la presentazione di tre disegni con ritratti d’uomo e del bozzetto
dell’affresco di Cava, e per l’apprezzamento dell’opera espresso anche dalla
stampa romana (Il Tiberino, 1833, n. 32, pp. 125 s.), nel 1834 Morani vinse la
borsa di studio per il pensionato nella capitale pontificia, con il dipinto La
morte di Archimede (Napoli, Galleria dell’Accademia), tela che si rifà alla
maniera di Vincenzo Camuccini. Anche durante i primi anni del pensionato
romano, partecipò con costanza alle Biennali borboniche testimoniando, con le
opere inviate, il suo progressivo orientamento verso le istanze della cultura
accademica pontificia sia nei soggetti sia nella scelta delle fonti figurative:
tra il 1837 e il 1839 inviò, tra l’altro, una copia de La creazione di Adamo
dall’affresco di Michelangelo nella cappella Sistina (1837) e il Davide ritorna
vittorioso (Napoli, Museo di Capodimonte); lo studio sull’opera di Buonarroti
continuò anche nell’anno successivo, data in cui eseguì una copia in acquerello
dalla Tentazione di Adamo ed Eva, tratta sempre dall’affresco sistino (già
mercato antiquario, Bonhams Chelsea, 28 novembre 2000, lotto 383); nel 1839
dipinse e inviò a Napoli una Venere reca le armi ad Enea e S. Giovanni
Battista, Erode ed Erodiade (Napoli, Museo di Capodimonte), dipinto,
quest’ultimo, che riscosse un grande successo (D’Aloe, 1853, pp. 47-49).
Concluso il pensionato, stabilì la propria residenza a Roma, entrando nella
cerchia di Tommaso Minardi e dei puristi ma mantenendo, al contempo, proficui
rapporti con la committenza nobiliare napoletana e con la corte borbonica. Nel
1840 completò il dipinto raffigurante L’incoronazione di Ester (Roma, Galleria
nazionale d’arte moderna) per il colto collezionista principe Vincenzo Ruffo
duca di Antimo: con questa grande tela di soggetto biblico, raffinata scena di
ambientazione orientaleggiante, si guadagnò il plauso della critica coeva.
A segnare il definitivo radicamento di Morani nel milieu artistico romano,
fu la committenza da parte del duca Marino Torlonia di un ciclo di affreschi
per la cappella del palazzo di famiglia in piazza Venezia, cui seguì la
commissione da parte del conte Alessandro, fratello di Marino, di dipingere un
Apollo che riceve doni e omaggi dalle muse per la medesima residenza. La
partecipazione al cantiere decorativo di palazzo Torlonia, uno dei più
importanti e impegnativi della Roma dell’epoca, rappresentò per Morani non solo
l’occasione di una committenza prestigiosa ma anche la possibilità di un
confronto diretto con i maggiori protagonisti della scuola romana del tempo
impegnati nel rinnovamento in senso classicista e purista della pittura
decorativa e di storia, i quali avevano lavorato alla decorazione della
residenza sin dal 1835 (Francesco Podesti, Francesco Coghetti, Nicola Consoni,
tra gli altri).
Una descrizione della decorazione della cappella, perduta con la
demolizione dell’edificio, si ricava da un articolo pubblicato ne L’Album nel
1842, data in cui l’opera risulta conclusa: sulla volta era rappresentato il
«Padre eterno che mostra il suo potere su tutto il creato», circondato da
lunette in cui erano raffigurati «angioli, che tenenti musici stromenti in
mano, osservi assorti come in estasi, a quelle grate armonie » (p. 197); nei
pennacchi angolari erano dipinti «i profeti maggiori col loro simbolo» e, in
quattro lunette a monocromo, le Storie di Mosè. Nell’abside, infine, era raffigurato
il Salvatore adorato dagli angeli, riprodotto in incisione nel 1842,
decorazione in cui Morani sembra aver assimilato pienamente la lezione del
purismo minardiano, richiamando, come elogiavano i contemporanei, sia nella
tecnica – quella dell’affresco, recuperato proprio nell’ambito della scuola di
Minardi – sia nello stile, «il bel secolo della pittura italiana».
In seguito al successo della decorazione in palazzo Torlonia, le
committenze di Morani sia a Napoli sia a Roma si incrementarono ulteriormente:
nel 1845 eseguì per il principe romano Cosimo Conti un dipinto raffigurante
Psiche rapita da Zefiro in lode del quale Gaetano Righi pubblicò nel 1845 un
poemetto in rima; nel 1846 Francesco II, re delle Due Sicilie, acquistò una
Sacra Famiglia presentata l’anno prima all’Esposizione borbonica (Napoli, Museo
di Capodimonte). Nel 1847 terminò e inviò a Napoli, la tela raffigurante La
Crocifissione commissionatagli da Ferdinando II per la chiesa del cimitero
Nuovo di Poggio Reale.
Il dipinto fu magnificato dalla critica come uno dei più riusciti di Morani
«per la severità dello stile e il purgato disegno sì nel nudo di Cristo che nei
panneggiamenti e nelle figure nelle quali è abbandono facile, naturalezza,
grazia » per «il colorito delle carni e delle vesti armoniosamente intonato» e
per la disposizione «della luce e delle ombre ben sentita e largamente
compresa» (L’Album, 1847, p. 131).
Oltre che ai modelli del Cinquecento romano, già mediati attraverso le
opere di Camuccini e Minardi, Morani guardò, a partire dagli anni Cinquanta,
alle fonti della pittura del romanticismo storico filtrate attraverso la
maniera di Giuseppe Mancinelli e Podesti. In quest’ambito va collocato il
dipinto raffigurante Pietro Bembo che visita Raffaello Sanzio nella villa Farnesina,
esposto alla Mostra borbonica del 1851 e acquistato dal duca di Terranova,
principe di Gerace; inoltre, con l’opera, di qualche anno successiva, Tasso
alla corte ferrarese del duca Alfonso II (Napoli, Biblioteca naz. Vittorio
Emanuele III), Morani mostrò un debito evidente nei confronti di uno dei
dipinti più fortunati di Podesti, Torquato Tasso che declama la Gerusalemme
liberta alla corte estense, fornendo, però, del soggetto una versione più
naturalistica, con la scena immersa in un paesaggio. L’opera venne anche
esposta nel 1867 alla Mostra degli amatori e cultori di Roma.
Tra il 1852 e il 1863 ricevette un nuovo incarico dai benedettini che gli
commissionarono la decorazione della chiesa abbaziale di Cava de’ Tirreni.
Si tratta di un ciclo piuttosto ampio che Morani realizzò in due fasi: tra
il 1852 e il 1856 inviò da Roma tre tele: La Deposizione, S. Placido in atto di
accomiatarsi da s. Benedetto e, nel 1856, il Martirio di s. Felicita e dei suoi
figli, opera anch’essa lodata dalla critica romana. Negli anni successivi
completò la decorazione con un ciclo di affreschi sulle pareti e sulle volte
della chiesa (nel coro, La visione di s. Alferio, Principali insegnamenti della
regola e I quattro dottori dell’Ordine; nel transetto sinistro, L’Ascensione di
Cristo, S. Pietro e s. Paolo con gli angeli, Mosè Davide ed angeli con i
simboli della Passione; nel transetto destro, La morte di s. Benedetto, S.
Romualdo e s. Brunone con angeli e Le Quattro badesse dell’Ordine; nella
cupola, I ventiquattro vecchi dell’Apocalisse e il Trono di Dio, nei peducci i
Quattro dottori dell’Ordine).
Con la nomina a professore onorario del Real Istituto di belle arti di
Napoli, Morani fu definitivamente riconosciuto come uno dei maestri più
apprezzati in ambito accademico: Francis Napier nel 1855 ricordava il successo
dei suoi dipinti presso la committenza napoletana per «la composizione
piacevole, il tono ricercato, il disegno corretto, il colore fuso e armonico»
(pp. 47 s.), mentre il suo studio in S. Andrea delle Fratte a Roma venne
registrato nel 1858 nella guida di Filippo Bonfigli, a testimonianza del
riscontro raggiunto anche presso i committenti della capitale pontificia.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta continuò la sua cospicua produzione
nell’ambito della pittura religiosa sia per il rinnovamento delle chiese del
Regno borbonico (nel duomo di Capua, dieci tele per la navata con Santi vescovi
capuani, 1856- 1858, disperse durante la seconda guerra mondiale; nel Reggino,
nella chiesa madre di S. Giorgio Morgeto, alcune tele per la cappella maggiore
con Profeti, 1861), sia nei cantieri patrocinati da papa Pio IX all’interno
dello Stato pontificio (basilica di S. Paolo fuori le Mura, affresco della
navata con Paolo e Sila martiri nella città di Filippi, 1859) e anche fuori dai
suoi confini: nel 1861 inviò due dipinti raffiguranti S. Gregorio Illuminatore
e il Pontefice s. Leone invia i suoi legati a presiedere il concilio
calcedonese per la nuova chiesa dell’Assunzione a Costantinopoli.
A tale produzione affiancò, con successo, quadri di genere (Pranzo in
campagna, 1858, Roma, Museo di Roma in Trastevere) e opere di soggetto storico:
nel 1862 inviò, per l’Esposizione universale di Londra un episodio tratto dal
II canto del Paradiso (Dante e Beatrice incontrano Piccarda e la regina
Costanza) insieme a una Scena in costumi romani. In occasione dell’Esposizione
romana d’arte cristiana del 1870 fu insignito della medaglia d’oro con la tela
I discepoli di Gesù Cristo abbandonati in una barca dai giudei e
miracolosamente giunti salvi a Marsiglia.
Molto apprezzati furono, inoltre, i suoi ritratti in cui, dall’iniziale
adesione a modelli davidiani, si orientò progressivamente verso uno stile
purista di derivazione nazarena (Ritratto maschile, Almese, Torino, collezione
Giulio Jerace, ripr. in La pittura napolletana dell’Ottocento, p.n.n.; Adelaide
Ristori in costume di Francesca da Rimini e Fanny Cerrito nel ballo fantastico
La fata del lago, Roma, collezione privata; Ritratto di gentildonna con
bambina, 1842, Roma, palazzo Taverna (cit. in Caduto, 1993); Francesco Florimo,
Napoli, Conservatorio di S. Pietro a Majella.
Morì a Roma il 15 giugno 1870.
Il fratello più grande, Francesco, del quale non è nota la data di nascita,
proseguì l’attività della bottega paterna, avviando una vasta produzione di
opere devozionali, sculture e decorazioni in stucco e legno per le chiese del
Reggino (Polistena, chiesa di S. Francesco di Paola, chiesa del SS. Rosario).
Alla scuola di Francesco si formarono, fra gli altri, il nipote Francesco
Jerace e Giuseppe Renda. Morì a Polistena nel 1878.
Il terzogenito di Fortunato, Domenico, nacque a Polistena nel 1824. Si
trasferì a Roma al seguito di Vincenzo; fu allievo di Canova e Pietro Tenerani
e si specializzò nella produzione di sculture sia in gesso sia in marmo di
impronta purista. Nel 1843 eseguì per il teatro della villa Torlonia due
sculture raffiguranti rispettivamente Menandro e Hendel. Nella chiesa dei Ss.
Apostolì si conservano due Angeli in marmo (1859). Nel 1861 espose a Firenze la
statua Silvia l’amante di Aminta. A Napoli (Conservatorio di S. Pietro a
Maiella) si conserva un suo Busto di Vincenzo Bellini. Morì a Roma nel 1870.
Fonti e Bibl.: S. D’Aloe, Un quadro storico, in Foglio settimanale, 20
luglio 1839, pp. 222-224; L’Album, 20 agosto 1842, pp. 197 s.; G. Righi, Psiche
rapita da Zeffiro, ibid., 21 giugno 1845, pp. 130 s.; F. Savi, Lettera del
sign. don Luigi Scovazzi di Napoli sopra un dipinto di V. M., ibid., 19 giugno
1847, pp. 130 s.; S. D’Aloe, in Albo artistico napoletano, Napoli 1853, pp. 47
s.; F. Napier, Pittura napoletana dell’Ottocento (1855), ed. ital. a cura di S.
D’Ambrosio, Napoli 1956, pp. 44-48; F. Bonfigli, The artistical directory or
guide to the studios in Rome, Roma 1858, p. 73; Giornale di Roma, 11 ottobre
1861; L’Album, 3 maggio 1862, pp. 97 s.; G. Ceci, M., V., in U. Thieme – F.
Becker, Kunstlerlexikon, XXV, Leipzig 1931, p. 121; R. Cioffi, Pittura e
scultura (1782-1860), in Storia del Mezzogiorno, a cura di G. Galasso – R.
Romeo, XI, Aspetti e problemi del Medioevo e dell’Età moderna, Napoli 1991, pp.
549 s.; S. Gnisci, M., V. in La pittura in Italia. L’Ottocento, a cura di E.
Castelnuovo, Milano 1991, II, p. 928; A. Caruso, La famiglia Morani di
Polistena, in Calabria letteraria, XL (1992), 7-9, pp. 99 s.; U. Campisani, V.
M. da Polistena, ibid., XLI (1993), 1-3, pp.104 s.; P. Caduto, M., V., in F.C.
Greco – M. Picone Petrusa – I. Valente, La pittura napoletana dell’Ottocento,
Napoli 1993, p. 147; M.T. Sorrenti, Artisti calabresi all’Accademia di belle
arti di Napoli: V. M., Angelo Mazzia e Achille Martelli, in I Borbone e la
Calabria: 1734-1861, a cura di R.M. Cagliostro, Roma 2000, pp. 107- 114; E. di
Majo, in Galleria nazionale d’arte moderna. Le collezioni. Il XIX secolo,
Milano 2006, p. 87.
MARINO
TIGANI
Marino Tigani (Polistena, 5 settembre 1902 – Roma, maggio 1941) è stato uno
scultore e pittore italiano.
Marino Tigani nacque a Polistena nel 1902. La sua infanzia fu colpita
indelebilmente dai due terremoti che sconvolsero la Calabria e la Sicilia, nel
1905 e 1908. Testimone della prima guerra mondiale, realizzò nel 1934 un
monumento in memoria dei cittadini di Polistena caduti o dispersi durante il
conflitto. Il monumento si trova all’interno dell’edificio della scuola
elementare “Trieste” di Polistena e porta incisa, oltre ai nomi dei
polistenesi, la dedica:
« I combattenti
Ai fratelli caduti, Polistena MCMXXXIV »
(Monumento ai caduti Marino Tigani)
Altre opere scultoree di Tigani si trovano nel cimitero di Polistena. La
scultura Il ragazzo che ride, numerosi i suoi dipinti, tra cui spiccano
Ritratto di donna con rose, Ragazzo con pipa.
Nella chiesa di Maria Santissima del Rosario, si conserva i dipinti del
Tigani come quello di Santa Caterina da Siena, il medaglione raffigurante San
Domenico di Guzman e un quadro raffigurante San Raffaele e Tobia. Raffigurante
la vita di Gesù, in 21 vetrate che sono state eseguite da una ditta di Milano
su disegno di Marino.
A Marino Tigani è stato dedicato un monumento commemorativo opera dello
scultore Domenico Mastroianni che trovasi nella Piazzetta 21 marzo già
Piazzetta Municipio.